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Rispondo al video: Cita le fonti, di Giorgio Taverniti.

 Con questo articolo rispondo al video:  CITA LE FONTI: chi copia è un Criminale della Condivisione, non è un grande artista. In sintesi:  c...

 Con questo articolo rispondo al video: CITA LE FONTI: chi copia è un Criminale della Condivisione, non è un grande artista.

In sintesi: come pensare fuori dallo "STATUS QUO"

Io questi argomenti li metto nella categoria: IPOCRISIE.

Nota bene: nel mio personabolario, IPOCRISIE non è inteso in modo negativo o dispregiativo con il significato di finzione, ma con il suo significato originale, dove IPO significa sotto e nei composti è inteso come nascosto, e CRISIE deriva dal greco KRINO=SEPARO inteso figuratamente come DECISO (che deriva da reciso). 

Quindi su questo argomento cosa è stato reciso sotto? Cosa non viene mostrato e quindi resta nascosto?

A tutti quelli che come Giorgio si cimentano in arringhe difensive del diritto d'autore chiedo di provare, se ci riescono, a mettere, cioè a definire un limite. Dove lo mettete il limite? Dove mettete il confine della citazione?

Attenzione, non sto affermando che debba essere tolto, non ragiono in termini binari, giusto o sbagliato, terzo escluso. Quello che proverò a fare è mostrare come si possa andare oltre a questi concetti.

Personalmente è mia abitudine citare le fonti. Questo articolo cita "delle fonti", alcune e non altre, perché? Ho anche un sito di aforismi, frasi che colleziono da oltre 20 anni, delle quali cerco e quando le trovo segnalo le fonti con tutti i riferimenti del caso, ma scopriremo che sono anche quelli solo un "grattare la superficie". 

Non sono né nuovo né improvvisato sull'argomento. Non sono un consulente legale, ma per motivi di progetti di impresa, ho diretto per alcuni anni una startup che avrebbe dovuto gestire i diritti d'autore di immagini digitali, ed ho dovuto approfondire l'argomento e scrivere contratti a riguardo. 

Una delle domande che mi pongo da anni è: fino a che punto dovremmo citare gli autori?

  • Perché un fotografo può pretendere dei diritti d'autore di uno scatto digitale della realtà? 
  • Perché il suo modo di guardare dentro all'obiettivo è unico? 
  • E se nello scatto ci fossero contenuti altri elementi protetti da diritto d'autore e di ingegno, il fotografo potrebbe ancora rivendicare dei diritti d'autore? 
  • E se facessimo la foto di una foto di una foto e cosi via, fino a che punto dovremmo garantire il diritto d'autore? 

Solo quelli più prossimi a quanto citato? Quando Taverniti cita nel suo video Aristotele, allora dovremmo andare indietro fino agli autori di 2000 anni fa?

Il diritto d'autore o di citazione ritengo sia determinato per lo più da: 

  • bisogni economici;
  • e di essere riconosciuti socialmente (quindi relativi al proprio ego).
Da appassionato lettore di testi di psicologia, ritengo che nel modello sociale attuale questi bisogni siano necessari. 

La questione tuttavia è: in un altro modello lo sarebbero ancora?

Tornando nuovamente alla questione "dove mettiamo il limite": 

  • perché Giorgio Taverniti non ha citato gli autori della tecnologia che stava usando?
  • Sono esseri umani di serie B? 
  • Perché ha citato gli autori degli indumenti che stava usando nel video o quelli che avevano realizzato la stanza? Non meritano anche loro una menzione? 

In genere rispondiamo a questa domanda perché sono stati pagati. Allora il confine è l'acquisto? Ovviamente questo non risolve tutti i casi.

  • Perché non ha citato gli autori dei concetti che ha usato? 
  • Perché li crede suoi? 
Mentre come società ci arrivano tramandati da generazioni passate, spesso da norme, quindi da leggi, introdotte nel '900.

  • Perché non ha citato gli autori dei libri di lingua italiana sui quali ha studiato?

  • Perché non ha citato gli i suoi genitori che gli hanno insegnato a parlare?

A questo domanda si potrebbe giustamente rispondere con: "ESAGERATO!"
Eppure proprio questa ultima domanda l'ho fatta per introdurre una citazione importante 
relativa all'esperimento che fece l’imperatore Federico II, impossibile da ripetere oggi per motivi etici.

Come ci racconta Fra Salimbene da Parma, l’imperatore Federico II (siamo nelle prime decadi del milleduecento) ordinò a delle badanti di non proferire parola a dei neonati da loro esclusivamente accuditi, per scoprire quale lingua avrebbero parlato spontaneamente se a questi non fosse stata pronunciata nessuna parola. 

Questi neonati, privati di ogni stimolo comunicativo (visto che parliamo di comunicazione), semplicemente si lasciarono morire tutti, perché un neonato senza stimoli materni, compreso il linguaggio, non ha possibilità di sopravvivere in natura. Questa cosa è nota oggi anche con il termine "Ospedalismo".

Quindi il debito formativo verso chi ci ha proferito parola è la VITA STESSA?

Debito che ognuno di noi ha verso la madre? Verso il padre? Verso chi, anche prima di loro, ha ricevuto per interazione sociale, attraverso migliaia di anni, formazione e soprattutto il linguaggio? 

Linguaggio che stimola non solo l’intelligenza quanto la sopravvivenza stessa?

Se ragioniamo in termini di PRINCIPI, dove posizioniamo il principio?

Ecco quindi EMERGERE il grande assente in tutta quella analisi: il COSTO NASCOSTO, e NON CITATO del debito formativo (ciò che era stato reciso sotto riagganciandomi all'introduzione) che non può essere risolto "con la semplice citazione" e non può essere risolto trattando chi non cita come "criminale" come ha fatto Giorgio Taverniti.

A mio avviso, l'analisi di Giorgio Taverniti è una analisi sì contemporanea, tuttavia che gratta solo la superficie di una questione sociale molto più ampia e profonda. 

Perché altri modelli rispetto ai presupposti attuali sono possibili. E non contemplarli, come terzo escluso, perché non sono applicabili nella struttura dominante culturale e legislativa attuale, vuol dire accettare e citare solo lo "status quo" (qualcuno direbbe che vuol dire essere realisti).

Vi propongo queste due riflessioni: 

  1. se esiste un diritto d'autore, se non si vuole essere ipocriti, allora vanno citate tutte le categorie?

  2. Se esiste un diritto economico d'autore, allora esiste come collettività un debito formativo che va quantificato. Se questo costo tenuto nascosto lo si fa emergere quant'è, quanto vale?

A questo punto scattano le opposizioni che, per lo più, non si sono prese il tempo di fare un minimo di riflessione sull'argomento, ed esclamano: 

  • "e ma allora come fai? ... ";
  • "e ma non si può ...";
  • "e ma non dai nessun valore alla creatività ...", no come dimostrerò ne do un valore collettivo maggiore di quello che viene dato oggi.  
Partiamo dal fatto che un confronto serio su questo argomento vuol dire comprendere:

  1. che esiste uno STATUS QUO,
  2. che è importante capire da dove è arrivato, da quali presupposti storici,
  3. che non è una cosa immutabile nel tempo,
  4. che altri modelli sono possibili.

Lascio a chi sa immaginare una società futura diversa da quella attuale, lo stimolo di riflettere che possano esistere modelli sociali alternativi. Io proverò a presentare un modello mio, alternativo a quello attuale. 

Detto ciò a mio avviso i problemi legislativi e sociali che si generano nel momento in cui qualcuno pretende dei diritti d'autore, questi si fondano sul modello economico lucrativo dello stesso.

Una società diversa è per molti utopica semplicemente perché non riescono a discostarsi dalla status quo, eppure l'impermanenza dovrebbe ricordarci che tutto cambia e tutto può cambiare ed essere cambiato. Senza scomodare il Sanscrito, una buona conoscenza della nostra storia potrebbe semplicemente ricordarci che ci illudiamo che le cose siano sempre state così.

Una possibile soluzione è determinata dal fatto che la collettività supporti i bisogni di Maslow, più i bisogni relativi alla creatività, allo sviluppo, alla ricerca ed alla libera condivisione. 

Questo porrebbe le basi di una società che non sia fondata sulla competitività dell'accaparramento di brevetti, di diritti d'autore, di copyright. E una società del genere potrebbe generare uno sviluppo senza precedenti. Perché è proprio la condivisione delle conoscenze che ci fa progredire sempre più velocemente.

In una società del genere la "COLPA" legata alla COPIA, oppure l'additare come CRIMINALE la COPIA non citata, non autorizzata, non avrebbe senso, come NON HA SENSO, che il ricevente di una comunicazione si senta in COLPA di copiare una parola appena sentita, oppure un significato o un concetto appena appreso. 

Il senso di "PERDITA" determinato dalla COPIA, deriva a mio avviso dal fatto che attribuiamo a queste produzioni umane il soddisfacimento dei bisogni di Maslow. 

Se questi bisogni fossero soddisfatti diversamente tutto l'impianto sociale, economico, legale, moralistico: CROLLEREBBE.

Riuscite ad immaginare una società diversa? NO? È un vostro limite, non imponetelo agli altri.

Perché la logica che sta sotto al diritto d'autore, a mio parere è la stessa che ha portato uomini facenti parte della società che passerà alla storia come quella più evoluta del secolo passato, intendo gli Stati Uniti d'America, ad avere società private capaci di creare farmaci salvavita brevettati e venduti al prezzo di 100mila dollari l'uno. Quindi con una speculazione iperbolica, permessa solo grazie alla protezione legale.

Ricordo che legge non vuol dire altro che ordinamenti ai quali abbiamo deciso ed accettato di essere legatiQueste leggi che vincolano gli uomini e la società andrebbero a mio avviso tagliati come nodi gordiani

Le nostre menti dovrebbero essere capaci di immaginare modelli che vadano oltre lo "status quo" oltre ai modelli speculativi economici sociali, verso modelli di maggiore condivisione, coesione, armonia, supporto e progresso sociale. 

Ritengo i modelli di principio che stanno alla base del diritto d'autore, come dei brevetti, egualmente divisori in termini sociali (diaballein) rispetto ai principi che ci uniscono, quindi di "con-prensione" (prendere insieme) invece che di "con-divisione" (diviso insieme). 

Quando spiego queste cose a volte mi viene commentato dai più gentili: "sei un sognatore", che a mio avviso vuol intendere "sei un illuso". 

A costoro, ed ai meno gentili, ricordo che è molto meglio vivere sognando, immaginando e magari progettando "futuri migliori, di progresso", che rivivere ogni giorno il passato, cioè quando scelto da generazioni MORTE.

Ritengo che in un modello sociale diverso, nel quale la speculazione del diritto d'autore sia contrapposta al ENORME COSTO SOMMERSO (tenuto nascosto, non considerato) del DEBITO FORMATIVO: questo lo annichilisca.

Come fare allora nel momento in cui si fa emergere la quantificazione dei COSTI FORMATIVI? 

Ripeto, perché repetita iuvant, ritengo che la creatività debba essere economicamente SOSTENUTA collettivamente e che i bisogno di Maslow debbano essere collettivamente soddisfatti 

Come? Questo oggi è meno utopico rispetto alle società che hanno vissuto prima degli Accordi di Bretton Woods, altro evento storico che dimostra che anche gli assiomi fondanti delle economie mondiali possono cambiare. Perché tali accordi hanno di fatto liberato la creazione di valuta dal vincolo di rapporto con l'oro, dando il potere alle Banche Centrali Nazionali di creare denaro praticamente dal nulla. 

Un potere così, illimitato, non dovrebbe essere gestito né da privati né da oligarchie come lo è ora. Questo enorme, immenso potere generativo, dovrebbe essere al servizio della collettività intera.

Comunismo Russo? No, chi cita questo ha davvero scarse capacità di immaginare modelli sociali futuri diversi, ricordando solo quelli passati.

Pensare altrimenti (think different) è possibile, sempre. E dovrebbe essere un buona pratica per la mente.

Infine ringrazio Giorgio Taverniti per aver stimolato l'argomento, così ho potuto dare una punto di vista in stile "terzo incluso".

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